Il braciere, compagno nelle fredde serate invernali, ferro da stiro a carbonella e scarfaliettu
Una tradizione senza tempo, in grado di riunire intere famiglie all’insegna di una semplicità disarmante.
La Redazione
Il braciere, vràscere nel dialetto salentino, era alto 7 cm e diametro di circa cm 37. Era un’istituzione e faceva bella vista al centro della stanza fissato sopra una grande pedana circolare di legno, laddove si potevano poggiare i piedi per scaldarsi. Aveva un grosso foro al centro, dove si posava il braciere di rame oppure di ottone; sul bordo trovavano posto i due manici, cesellati, per il trasporto.
Esso, con all’interno tizzoni e carboni che si consumavano assai lentamente, ancor prima di entrare in casa, si lasciava fuori dalla finestra, fin quando restavano i fuochi accesi senza fiamma e non c’era più pericolo per le esalazioni tossiche. Di tanto in tanto, la brace bisognava stuzzicarla con l’opportuno attizzatoio, talvolta anche un vecchio cucchiaio andava bene.
Tale operazione era svolta da mani competenti, altrimenti la brace si consumava subito e occorreva rifornire di carbone. Per profumare l’ambiente si buttavano nella brace delle scorze di limone o mandarino. Seduti intorno al braciere, si riuniva l’intera famiglia; noi ragazzi ascoltavamo i discorsi degli adulti, che raccontavano episodi della loro vita. Eravamo affascinati nell’ascoltare e avevamo gli occhi spalancati per la meraviglia.
I sapori del braciere: dalla patata ai lampascioni.
Ogni tanto rivolgevamo qualche domanda, col massimo rispetto, e raccoglievamo le risposte come la verità assoluta. Erano serate dal delizioso sapore antico. Nel bel mezzo dei racconti, si era soliti arrostire delle grosse fette di pane insaporite con il pomodoro, olio, sale e subito gustate.
Qualcuno, sotto la cenere, metteva una patata intera avvolta nella carta oleata o i lampascioni che, immediatamente dopo la cottura, erano spellati e conditi con olio d’oliva. Le donne si sedevano vicino al braciere vestite con ampie gonne, sulle quali si formavano delle macchie, che ricordavano il colore della mortadella.
La sera, quando la famiglia si ritirava, ciascuno nel proprio letto, la donna di casa copriva il braciere con una campana. A ciò che era rimasto di carboni e cenere calda, avvicinava lo “scaldapanni” fatto con listelli di legno, incrociati, su cui si sistemavano i panni umidi o ancora bagnati, e le fasce dei neonati. Nel silenzio della notte i panni si sarebbero asciugati, pronti per l’uso, il giorno dopo.
Ferro da stiro a carbonella e “Lu scarfaliettu”.
Il caro ferro da stiro a carbonella aveva una forma elegante. Era di ghisa, decorato in modo accurato, con un manico di legno nei ferri più semplici, invece di avorio nei ferri delle famiglie più ricche, con il coperchio apribile. Per utilizzarlo occorrevano dei carboni ardenti. Bisognava aprire il ferro, riempirlo di brace, di una pezzatura piuttosto grossa per evitarne la fuoriuscita dai fori presenti nella parte inferiore, che servivano per far circolare l’aria all’interno durante la stiratura e che periodicamente dovevano essere alimentati per mezzo di un soffietto. Quindi richiudere con il gancetto e stirare fino a quando i carboni si raffreddavano.
Il rischio era di tingere, con la cenere, gli indumenti di nero dato che, inevitabilmente, fuoriuscivano dai fori la cenere o pezzetti di carbone. Le massaie dovevano rilavare la biancheria o ricucirla nei punti in cui era stata bruciata. Lo scaldaletto, scarfaliettu nel dialetto, era denominato “il prete e la monaca”. Per rimuovere il gelo dalle lenzuola, nelle stanze da letto, si usava il prete telaio di legno da infilare sotto le coperte, facendo così assumere al letto una forma rigonfia, panciuta, giacché grazie alle sue assi ricurve, lenzuola e coperte restavano sollevate.
La monaca era un contenitore di rame, a forma di tegame, provvista di un coperchio forato e di manico lungo che veniva riempita di brace e cenere. Trovava l’alloggio sul piano basso del prete, volutamente rivestito di lamiera per ridurre quasi al minimo il rischio bruciature. Assieme agivano, garantendo l’uniforme distribuzione del calore in tutto il letto.
Dal Libro “Amarcord Salentino” – Usi e costumi d’altri tempi