Bottega di generi alimentari anni ’50 – ’60 nel Salento: quali erano le caratteristiche?
La Redazione – Foto di copertina: Porto Cesareo 1958 in piazza Risorgimento, civico 16. La bottega di generi alimentari di Chiarina Orlando. Dietro al bancone, la figlia Annetta De Pace.
La bottega di generi alimentari, di solito, era nello stesso stabile, dove abitava il negoziante. Il negozio, ben curato, perfetto per ogni genere di prima necessità vendeva pressoché tutto “sfuso” e al centro del soffitto vi era una lampadina dalla luce flebile. Le spese importanti, al contrario, si facevano sempre al mercato settimanale.
Il cibo per alcuni ceti familiari era razionato e per avere il diritto di acquistare generi di prima qualità, bisognava avere la tessera annonaria dove c’era il nome e si riceveva un tanto a persona. Ciò che non si riusciva a comprare era scambiato tra le famiglie. La prima operazione consisteva nell’appoggiare la preziosa tessera sul bancone di vendita. Il negoziante, con le forbici, tagliava le strisce in cima alle quali imprimeva il suo timbro d’esercente e poi le indirizzava, a intervalli, agli uffici municipali.
Di solito, questi esercizi non avevano insegne. Soltanto agli inizi degli anni ’60 apparvero le prime vetrine e il tubicino a neon dei F.lli Ghezzi. Una curiosità storica sono le piccole targhe metalliche vicino la porta con il nome di alcuni prodotti. La pulizia del locale era giornaliera, la tinteggiatura stagionale era fatta con calce viva, a cura degli stessi negozianti. Le fastidiose mosche si mantenevano alla larga usando la classica macchinetta d’acciaio del Flit, spruzzando una miscela di DDT.
Un arredamento che curava poco l’estetica.
L’arredo era molto spartano: un classico bancone a due piani, di legno, sopra cui c’erano l’affettatrice, la grattugia per i formaggi, il macinacaffè e una bilancia a due coppe con i pesi. Sotto venivano esposti mortadella, provolone, formaggi, salumi, lardo salato, burro e altro. La ghiacciaia era utilizzata per le bevande fresche e funzionava con un blocco di ghiaccio fornito ogni giorno. Le scaffalature erano di legno verniciato, mantenute da una barra di ferro fortemente ancorata al muro dove pendevano, in bella mostra, provoloni, salami, caciocavallo e salsicce.
Per le confezioni c’erano due tipologie di carta: quella per il pane e quella oleata. Molto adoperati erano i cartocci predisposti dagli stessi negozianti, avvolgendo la carta su sé stessa. Appena si entrava nel negozio si percepiva un miscuglio di odori. Su tutti emergeva il pungente odore dello stoccafisso, tenuto in bella vista in un angolo del locale, in ammollo nella vasca di ferro.
Affiorava più leggero invece l’odore di sarde, alici, aringhe sotto sale che, conservate in capienti contenitori di rame, erano aperti per la vendita. Per i liquidi come l’olio e l’aceto di vino, i clienti portavano le bottiglie da casa.
Caratteristici erano i cassetti per pasta lunga. Si mostravano aperti e tirati in fuori, mentre per la pasta corta erano chiusi con il vetro di fronte. Quella che si frantumava, il cosiddetto tritume, era raccolta in un cassetto e venduta a costo inferiore. Vicino al bancone, per la gioia dei ragazzi, si trovava tutta una serie di barattoli grandi con coperchio, contenenti le squisitissime caramelle gommose o un “laccio” di liquirizia al gusto di catrame e i mitici formaggini della Locatelli che costavano soltanto 2 lire.
Sulle altre mensole, tutti i prodotti si frazionavano per tipologia: zucchero, caffè in grani, bottiglie di liquori come Vermouth, Marsala, Millefiori di color giallo con rametto e lo zucchero cristallizzato, il Rosso Antico, l’Anisetta, e i primi brandy come lo Stock 84 e la Vecchia Romagna. Come prodotti per l’igiene si usava ancora la liscivia bianca che arrivava in sacche. Alquanto pericolosi erano la varichina e la soda caustica, venduti alla rinfusa.
Bottega di generi alimentari: per i conti si usava l’addizionatrice.
Durante l’anno in alcune ricorrenze, il negozio cambiava una gamma di prodotti, mettendosi in festa. A gennaio, mese in cui si ammazzava il maiale, si vendeva tutto l’occorrente per fare le salsicce e le ventricine. Per Carnevale, si vendevano in gran quantità, la ricotta, formaggio fresco e miele. A Pasqua tantissime uova per dolci e frittate. A novembre una grande quantità di ceri per il cimitero.
Con l’arrivo del Natale si ostentavano le grandi forme di parmigiano, il baccalà, i legumi, mandorle, liquori e i primi panettoni. Ma, il vero privilegio fondava sul rapporto umano di cordialità e cortesia che si respirava in negozio. Quasi tutti i bottegai erano amici del popolo, solidali, e aiutavano tutti assicurando un pezzo di pane.
Nella bottega non c’era la cassa. Il bottegaio faceva i conti con la matita sopra un pezzo di carta e spesso, se i prodotti erano pochi, li faceva a mente. Solo in qualche negozio era in uso l’addizionatrice, nel senso che faceva, davvero, solo l’addizione! Una parte di clientela, con problemi economici, faceva segnare l’importo della spesa, giorno dopo giorno, sopra due libretti di cui uno restava al salumiere e l’altro era consegnato al cliente che, alla fine del mese e tirate le dovute somme, saldava i conti.
Era possibile trovare una soluzione per qualunque esigenza legata alla cura della propria persona. Nei “Sali e Tabacchi“, le amate rivendite dei monopoli di stato, oltre a sigarette, sigari e prodotti da fumo, si potevano trovare le cartoline, la crema per radere la barba e, come qualcuno ancora ricorda, ben presentata al pubblico una tabella con l’iscrizione “Qui si vende il Chinino dello Stato“. Le minuscole compresse del chinino, vendute dal tabaccaio, hanno contribuito a salvare la vita a moltissimi malati.
Erano veramente una panacea per ogni tipo di febbre e non solo. Una scatoletta con le amare pastigliette, non mancava quasi mai sul comodino. L’idea di recarsi dal tabaccaio per comperare il chinino, oggi può fare sorridere, ma sino a una cinquantina di anni fa, come molti ricorderanno, era la prassi comune.
Tratto da: “Amarcord Salentino – Usi e Costumi d’altri tempi”.