La Tetta ti lu Chinu, la mamma di tutti
a cura di Raffaele Colelli
Lei era semplicemente Antonia Peluso, una ragazza del ’29. Viveva in un piccolo borgo, giù nel Salento fatto di barche e di pescatori, anche se lei non era figlia di pescatori, ma di un umile ciabattino. E come tante altre ragazze sue coetanee aveva, in cuor suo e sotto una nuvola di capelli ricci, un solo, unico e grande sogno, quello di incontrare un giorno la faccia pulita di un bravo ragazzo e poi maritarsi.
La Grande Guerra era da poco terminata e aveva seminato tra le genti distruzioni, lutti e miserie. E per questo cosa poteva mai chiedere alla vita la nostra giovane Antonia, se non essere portata all’altare, ricevere la grazia del Signore e mettere su famiglia e magari avere tanti figli da crescere. Questo, solo questo, e nient’altro, anche perché non c’era nient’altro da chiedere.
Ma più il tempo batteva il suo tempo, più nell’animo puro e innocente della ragazza cresceva sornione un desiderio compassionevole quanto spirituale. E per questo a un certo punto della sua esistenza rifletteva sulla possibilità di prendere i voti e farsi suora. Solo che non aveva fatto bene i conti con un destino fortemente determinato, che avrebbe cambiato radicalmente il suo personale percorso.
Era il 1950 e in una tiepida mattinata di tarda primavera un camioncino Fiat Balilla con due robusti fari posti su ognuno dei ricurvi parafanghi e di colore verde bottiglia, viaggiava, evitando le buche più profonde. Carico di frutta e verdura, percorreva su una contorta strada sterrata che da Veglie, portava a Porto Cesareo. Il coraggioso guidatore era un bel ragazzo alto e di bell’aspetto, fisico longilineo ed elegante. Due sottili baffetti stile Dartagnan, che, senza alcun dubbio, avrebbe fatto la sua bella figura in mezzo ai tre famosi e intrepidi Moschettieri di Dumas.
L’incontro con il futuro marito Pasquale Coppola.
Lui era Coppola Pasquale, ma per tutti era Chino. Indistintamente ogni mattina alla stessa ora tracciava lo stesso e identico percorso cercando di vendere dal suo mezzo ambulante i prodotti freschi della terra ai pochi abitanti del piccolo borgo marittimo. E qui il fato stava per estrarre il suo asso dalla manica. Era abitudine del giovane Chino portarsi le domeniche nei pressi della chiesa del paese per esporre la sua mercanzia. Noccioline, castagne secche e arachidi riempivano la piccola bancarella di legno, quando vide passare a pochi passi da lui una bellissima ragazza con due grandi occhi sotto una folta capigliatura riccia.
E fu subito amore, un colpo di fulmine, di passione lo travolse all’istante tanto che qualcuno lo sentì pronunciare quasi ad alta voce una frase che divenne storica quanto profetica: “Quista mi la sposu“. Infatti fu così e dopo un lungo ed estenuante corteggiamento e cinque anni di fidanzamento, nel 1955 divennero marito e moglie.
L’amore tra i due era così profondo che il neo sposo volle fare alla sua adorata sposa un magnifico regalo di nozze, portarla a Roma e incontrare il Papa buono, l’allora Giovanni XXIII. E ricevere dalle sante mani del religioso la meritata benedizione. Per quei tempi fu un evento eccezionale al limite del possibile. Molti dei paesani lo misero in dubbio, anche per via di una certa invidia, il loro raccontare, e che tutto fosse stato frutto solo di pura fantasia.
Gli anni trascorrevano sereni, l’attività di venditore ambulante procedeva nel migliore dei modi. Per questo decisero di allargarsi e aprire in via Garibaldi un negozio di frutta e verdura. Lì restarono tredici anni, dove tra l’altro divennero genitori di due fantastici figli: il primogenito Carlo e due anni dopo Giovanni, il secondo genito.
Nasce nel 1968 quel piccolo bar che viene identificato come “La Tetta ti lu Chinu”.
Così nel 1968 con i soldi guadagnati dai tanti sacrifici acquistarono in via Monti un’ampia palazzina adiacente alle scuole elementari dedicata a Don Rua. Nel piano terra pensarono bene di cambiare del tutto attività e di installarci un piccolo bar. Ed è qui che entra prepotente ancora una volta il destino: Antonia diventa per tutti quanti “La Tetta ti lu Chinu”.
In quelle mura esplode tutto il suo mondo e tutto il suo modo di essere donna e madre straordinaria. L’intera comunità scolastica fatta di piccole creature si lega indissolubilmente a lei, e lei ancor di più a loro. Tutte le mattine prima che il campanello della scuola richiamasse i piccoli studenti alle rispettive lezioni lei era lì nel suo bar ad aspettarli, insieme a un rassicurante sorriso per servire brioche, panini, biscotti, paste fresche e dolciumi.
E a coloro che non se lo potevano permettere, e a quei tempi erano davvero tanti, lei estraeva per magia dalle profonde tasche del suo mitico grembiule delle dolcissime caramelle che donava nelle loro piccole mani. Nel suo amore di mamma, come se li volesse offrire a tutti i bambini del mondo. Ma il suo grande cuore caritatevole batteva incessantemente per il suo prossimo, che amava come sé stessa, e per chi era stato meno fortunato di lei.
Quel gesto di solidarietà compiuto nel silenzio ogni settimana…
Così vero che dopo la sua morte, Carlo e Giovanni, i due figli, e le rispettive e dolcissime mogli Isabella e Marinella seppero da fonti certe che sistematicamente era abitudine di mamma Tetta recarsi ogni fine settimana in macelleria per acquistare della carne e offrirla alle famiglie più bisognose. E per onorare il suo nome vollero continuare per gli anni successivi quell’opera di assoluta carità.
Prima di terminare il pezzo, e di questo ne sono davvero onorato, mi chiedevo di quale o di quali aggettivi potessi farmene uso. O quantomeno accostarli al nome di una donna così fortemente straordinaria. Ho capito poi che nessuno degli aggettivi poteva pienamente rappresentarla, o renderle merito, dal momento che “La Tetta ti lu Chinu” può senza alcun dubbio ritenersi paradossalmente un proprio aggettivo dalle innumerevoli qualità che indissolubile aleggia ancora nei cuori infiniti di quei bambini, ora padri e madri, che hanno avuto la fortuna di incontrarla, sapendo quanto lei fosse semplicemente “La madre di tutti”.