La pesca con la nassa, la squadrara e la palamitara: evoluzione fine anni ’50 a Porto Cesareo
La Redazione – Foto di copertina con preparazione pesca con la nassa
Nel 1958, così come era avvenuto per le reti, anche per il palamito si passa dalla canapa al nylon. Tra gli attrezzi usati in questo periodo, merita una particolare citazione la nassa per la pesca. E’ uno strumento molto antico, fatta di giunco essiccato e lavorato dai pescatori nei periodi di maltempo durante il quale non si usciva per la pesca.
La nassa è un cesto costruito in modo tale da rendere facile l’accesso al pesce e difficile, se non impossibile, l’uscita. L’entrata è a forma di imbuto che si restringe verso l’interno fino a raggiungere le dimensioni del tipo di pesce da pescare. Questi entra facilmente in quanto la parte finale dell’imbuto è formata da giunchi con le estremità libere che si dilatano facilmente, ma che poi non permettono alla preda di trovare la via d’uscita.
Le nasse, alte 2 mt e con un diametro di 70 cm, venivano usate per la pesca di masculari, fimmineddre, in numero di 50 – 60 per imbarcazione. Esse venivano buttate in mare con delle pietre legate ad una corda. All’estremità veniva posto un galleggiante che ne segnalava la posizione in superficie. Dopo un giorno di permanenza in acqua venivano ritirate, pulite e ributtate in mare.
La squadrara e la palamitara seguono l’avvento della pesca con la nassa.
Verso la fine degli anni ’50, altri due attrezzi, la squadrara e la palamitara, fanno parte integrante della strumentazione dei pescatori di Porto Cesareo. La squadrara era una rete inizialmente di cotone e poi di nylon, alta circa due 2 metri e lunga 50 metri. Composta da una sola facciata con maglie larghe 16 cm, veniva utilizzata in numero di 20 pezzi per imbarcazione.
Essa era adatta per la pesca di pesci di grossa taglia e delle aragoste. Per mezzo di alcuni pesi in creta, infilati nella corda inferiore, era fatta arrivare fino al fondo per costituire un muro, entro cui rimanere impigliati, al passaggio del pesce.
Le palamitare (detta anche schiavina) è una rete (da corrente e da posta) fatta di nylon che ha un’altezza di 200 maglie di 7 cm ciascuna ed una lunghezza di 2000 maglie, vale a dire 14 metri di altezza per 150 metri di lunghezza. Ogni barca portava con sé 8 pezzi per un totale di 1200 metri di rete. Essa veniva posta in mare al tramonto per essere recuperata poi prima dell’alba.
Tale attrezzo era utilizzato nella pesca del cosiddetto pesce azzurro (palamite, tonno, trombarello) ed anche di ricciole e sarpe. In genere, le palamitare venivano poste in mare e lasciate trascinare, insieme alla barca dalla corrente. Ai capi delle stesse venivano posti dei segnali luminosi che ne indicano la presenza.
Come veniva catturato un branco di tonni?
Nel caso della pesca del tonno, che avviene durante il giorno, la palamitara era appesantita, al di sotto della corda del piombo con delle pietre. Questo veniva fatto per far sì che la rete scendesse in mare molto velocemente. In tale occasione si operava con due imbarcazioni nel modo seguente: le due barche procedevano affiancate, ed una volta avvistato il branco di tonni, posto un capo in mare, si aprivano una a destra e una a sinistra, accerchiandolo in brevissimo tempo.
Compiuta tale operazione, il pesce veniva posto in un angolo del cerchio dove una leva, collegata alla palamitara mediante altre reti veniva posta sul fondo (stesso sistema della camera della morte delle tonnare). E quando il pesce vi saliva sopra, veniva tirato in superficie e preso con delle aste uncinate o con le mani e issato sull’imbarcazione. Con tale sistema si sono avuti dei pescati di tonno da un minimo di 5 ad un massimo di 100 quintali.
È doveroso fare una precisazione, che può sembrare ovvia per i pescatori più anziani, ma che per le nuove generazioni ovvia non è. Tutto il lavoro svolto con gli attrezzi fin qui citati era svolto dal pescatore solo con la forza delle braccia. Facendo mente alla lunghezza della rete, alla loro scarsa manovrabilità ed all’equilibrio instabile di una barca in mare, ci rendiamo conto di quanto faticoso e improbo fosse tale lavoro.
Tratto dal libro “La salsedine ha solcato il mio cuore” di Antonio Durante.